VISIONI OBLIQUE

20 settembre 2009

38/2009 - La libertà rinviata


L’incertain regard si accoda a coloro che ritengono il rinvio della manifestazione sulla libertà di stampa, prevista per sabato 19 settembre, una notizia sconfortante.
La Federazione nazionale ha sospeso l’appuntamento per la strage di militari italiani a Kabul, perché «il lutto e il tempo del pianto vanno rispettati».
Come se la protesta in difesa di un diritto civile alla base della convivenza democratica fosse in contraddizione con il rispetto dei morti.
Al contrario, la morte dei sei militari semmai amplifica le motivazioni di chi chiede che in questo paese i cittadini possano essere informati correttamente, ad esempio su una realtà, quella afgana, descritta dalla maggior parte dei media in termini di propaganda guerrafondaia.
Pazienza se la bandiera della libertà di informazione dovrà essere arrotolata in attesa di un clima tornato di nuovo agibile.
Comunque tra due settimane, così è stato deciso dall’Fnsi, saremo di nuovo chiamati a riempire piazza del Popolo.
Ma non sarà lo stesso.

L'incertain regard salta un giro e ritorna col numero 40 il 3 ottobre.

VISIONS DE LA SEMAINE
Sur grand écran
:-)) Bad Lieutenant – Port of Call New Orleans di Werner Herzog

13 settembre 2009

37/2009 – Cento passi… indietro


Da sempre fautore della pubblica lettura, dopotutto quindici anni trascorsi nel mondo bibliotecario lasciano il segno, L’incertain regard non poteva certo sorvolare sulla bufera scatenatasi attorno alla biblioteca di Ponteranica, un paesotto in provincia di Bergamo sperduto nella più profonda marca padana.
Il sindaco leghista Cristiano Aldegani ha deciso di togliere l’intitolazione della biblioteca del suo comune a Peppino Impastato per re-intitolarla a don Giancarlo Baggi, un prete della zona, per “preservare e promuovere i personaggi locali”.
Un autogol, o per dirla tutta una “gran cazzata”, che lo catapulta suo malgrado al centro di un caso che sta assumendo dimensioni nazionali.
Forse potrebbe anche scoprire, con sua somma sorpresa, che Peppino Impastato non era, come probabilmente avrà pensato fino a questo momento, solo “un terrone” che parlava troppo, ma un ragazzo coraggioso che ha denunciato tutte le porcherie che la mafia faceva nel suo paese, Cinisi, le ha urlate dalle frequenze della sua radio libera e per questo ha pagato con la vita la sua “insolenza”.


VISIONS DE LA SEMAINE
Sur grand écran
:-) Videocracy di Erik Gandini


Sur petit écran
Gedo senki di Goro Myiazake
UFC 101
UFC 102
Terminata la visione della seconda stagione di True Blo
od, della prima di Hung e della sesta di Star Trek Deep Space 9

08 settembre 2009

QUESTO MESE SU KULT

BELLO, COLTO E POCO DANNATO
UNITE I TRATTI MIGLIORI DI LEONARDO DICAPRIO, JACK NICHOLSON E MATT DAMON E USCIRÀ L’IDENTIKIT DI ALDEN EHRENREICH. AL DEBUTTO CINEMATOGRAFICO NELL’ULTIMA PELLICOLA DI FRANCIS FORD COPPOLA, TETRO, IL GIOVANISSIMO ATTORE DALLO SGUARDO AFFILATO E DAL SORRISO LUMINOSO, APPASSIONATO DI CINEMA FIN DA RAGAZZINO, HA LE CARTE IN REGOLA PER DIVENTARE IL NUOVO BELLO E DANNATO DEL CINEMA AMERICANO

In Tetro, il nuovo film di Francis Ford Coppola, Segreti di famiglia per gli schermi italiani, il debuttante diciannovenne Alden Ehrenreich riesce in un’impresa molto difficile: oscurare il talentuoso e affascinante Vincent Gallo. E non è che l’inizio. Nello spettacolare ritratto di un arrabbiato ottimista come Bennie, Alden Ehrenreich abbaglia. I suoi occhi scintillano, la sua voce trasmette brividi e il suo carisma ancora infantile, ma curiosamente erotico, gli conferisce quello spessore che fa immediatamente passare in secondo piano la sua fama, innegabile, di faccia simpatica. Abbiamo incontrato Alden Ehrenreich che ci ha parlato del suo personaggio, della sua idea di recitazione e (qui il gioco si fa duro) della frustrante retorica nota come “ibridismo hollywoodiano”.
Leggenda vuole che sia stato Steven Spielberg a scoprirti dopo aver visto una tua divertente e particolare interpretazione durante il Bat Mitzvah (giorno in cui i bambini ebrei lasciano l’età infantile) di un’amica. Come sei riuscito a catturare la sua attenzione?
Con un paio di amici giravamo sempre filmati idioti durante i weekend, e in quello che stavamo realizzando per il Bat Mitzvah avevo preso una cotta per la festeggiata. Irrompevo in casa sua, mi provavo i suoi vestiti, le chiedevo di uscire. Lei rifiutava e io mi mettevo a urlare e fare scenate. Durante la festa il video veniva proiettato in loop su un piccolo televisore e Spielberg l’ha notato. L’ha talmente interessato che poco dopo mia madre ha ricevuto una telefonata dalla Dreamworks: volevano fissare un appuntamento con Steven e trovarmi un agente. Questa è stata l’unica ragione per cui ho iniziato a lavorare come professionista a una simile età!
Questa è stata l’origine della tua carriera, ma cosa ti ha spinto a proseguire e diventare seriamente un attore?
Credo che una delle ragioni sia l’aver visto tanti film, visto che amo il cinema fin da quando ero molto piccolo. Questo è stato il primo motivo, la base del mio sviluppo come attore. Soltanto in seguito ho cominciato a pensarci seriamente, a ragionarci sopra e a studiare. Non sarà molto entusiasmante ma ancora oggi imparo di più sulla recitazione osservando una performance che adoro e cercando di capire perché mi piace tanto. Giro cortometraggi fin da quando avevo tredici anni e, se si vuole diventare un attore cinematografico, una delle tecniche più utili e soddisfacenti è imparare a lavorare al montaggio. È davvero un peccato che la maggior parte delle scuole di recitazione, soprattutto a livello universitario, siano basate sulla recitazione teatrale, che è meravigliosa ma non è la stessa cosa. Molte persone pensano che fare l’attore in un film o a teatro sia la stessa cosa: Tu reciti su un palco, qualcuno ti riprende e quella è recitazione cinematografica dicono. Invece è una disciplina diversa, con le proprie caratteristiche.
Condividi l’ottimismo di Benne, il personaggio che interpreti, e la sua visione romantica del mondo?
Assolutamente. È qualcosa in cui mi ritrovo, dato che sono cresciuto con una grande immaginazione, e mia madre ha coltivato questa mia caratteristica fin da quando ero piccolo. L’idea di essere coinvolto in un racconto, che può capitare a tutti noi, pone le cose in una particolare prospettiva narrante. Un amico mi ha detto che una definizione della follia è “la perdita della narrativa personale”. È un’idea molto interessante perché il modo in cui noi ci identifichiamo è attraverso le storie che ci permettono di raccontare una parte importante della nostra cultura, come di tutte le culture credo. Per me, poter contribuire a una simile eredità narrante è un’esperienza importante e di gran valore.
Nella recensione di “Variety” ti hanno paragonato a DiCaprio, Damon e Nicholson. Pensi che questi raffronti siano azzeccati o ci sono altri attori ai quali vorresti venire accostato?
Penso che possa esserci una somiglianza fisica, eppure ci sono molte persone che mi assomigliano. Non c’è nessun attore di preciso al quale vorrei assomigliare, anche se questi paragoni ovviamente mi fanno molto piacere. Però penso che ci sia troppo “ibridismo hollywoodiano”. Ad esempio, per presentare un soggetto dici: Questo film è come Terminator unito a questo film, unito a quest’altro film etc. Devi paragonarlo a qualcosa che esiste e ha avuto successo, che è già stato accettato, e non penso che questo sia l’approccio migliore in una forma d’arte creativa. In questo modo si rischia di cancellare ogni nuovo approccio diverso, diventando molto generalizzati. La mia generazione è così referenziale, ma penso che questa costante retorica comparativa inibisca davvero la capacità di trovare una propria iconografia. A livello creativo, ciò che m’interessa è qualcosa che ancora non esiste.
TUTTO SUL FILM - SEGRETI DI FAMIGLIA
Due anni dopo il suo ritorno alla regia con il personalissimo Un’altra giovinezza, il grande Francis Ford Coppola ha preferito regalare il suo nuovo film all’apertura della Quinzaine des Réalisateurs piuttosto che all’ufficialità del Concorso del Festival di Cannes, che gli proponeva solo una proiezione fuori concorso. A 70 anni Coppola rimane un ribelle: produce i suoi film da solo, senza Hollywood, li finanzia grazie all’Europa o agli eccezionali introiti provenienti dai suoi vigneti californiani. Girato a basso budget in Argentina, in un maestoso bianco e nero digitale, privo di star, ma non di ottimi attori (Vincent Gallo, Maribel Verdù, Carmen Maura, Francesca Di Sapio, Karl Maria Brandauer…), ispirato da un’idea autobiografica (una storia di gelosia artistica e familiare, di fratelli e di sangue), autoprodotto e (almeno negli Stati Uniti) anche auto distribuito, il nuovo film di Francis Ford Coppola ha tutte le qualifiche del lavoro di un filmmaker indipendente americano a inizio carriera.
(di Fausto Furio Colombo da Kult N.09 settembre 2009)

OH MIA MUSA
RAINER WERNER FASSBINDER E HANNA SCHYGULLA, DEREK JARMAN E TILDA SWINTON, TODD HAYNES E JULIANNE MOORE, ZHANG YIMOU E GONG LI: MUSE SULL’ORLO DI UN LEGAME INDISSOLUBILE! TRE ANNI DOPO VOLVER, IL REGISTA ANDALUSO PEDRO ALMODÓVAR RITROVA LA SUA PENELOPE (CRUZ) PER L’ULTIMO MAGNIFICO MÉLO GLI ABBRACCI SPEZZATI CHE CONFERMA UN RAPPORTO PRIVILEGIATO TRA IL REGISTA E LA SUA MUSA

Con la sua ultima pellicola Gli abbracci spezzati, una disperata riflessione sul cinema, sulle responsabilità di chi lo fa e, per estensione, su quello che l’occhio umano può e vuole vedere, Pedro Almodóvar tocca il suo apice, per interrogarsi su cosa davvero possano comunicare le immagini. «Ho sempre costruito un rapporto intimo con i miei interpreti, personalizzato e mai standardizzato. Mostro loro come vorrei la recitazione, mi metto nei loro panni». Un’inedita dichiarazione d’amore rivolta alla sua musa impegnata, per questa pellicola, in ben tre differenti ruoli. Attrice in Carne tremula, Tutto su mia madre e Volver, Penelope Cruz Sanchez torna a girare con il regista andaluso. Dopo i suoi studi di recitazione alla scuola di Cristina Rota, debutta diciottenne in Prosciutto, prosciutto diretta da Bigas Luna. I suoi inizi provano una capacità straordinaria nell’interpretare personaggi popolari, ruoli che le riserveranno uno straordinario successo e attireranno l’attenzione dei più importanti registi spagnoli con i quali lavorerà in seguito: Fernando Trueba, Alejandro Amenabar, Augustin Diaz Yanes. Ma è con Almodóvar che la Cruz manifesta al meglio la propria attitudine recitativa. «Pedro mi ha regalato con Gli abbracci spezzati il mio personaggio più complesso e difficile. Per Lena mi ha voluta ora simile a Gene Tierney, ora ad Audrey Hepburn o a Romy Schneider e forse anche a Gena Rowlands, la donna forte dei film di Cassavetes che tanto e più di tutte gli è sempre piaciuta. Gli sono grata per ogni cosa. È il cinema passionale di Pedro che probabilmente ha suggerito a Woody Allen il ruolo femminile, sensuale e un po’ folle che quest’anno mi ha fatto vincere l’Oscar». Almodóvar, come tanti illustratori diventati registi, crea una moltitudine di belle immagini attorno alle quali sviluppa pezzo dopo pezzo il suo melodramma: Penelope Cruz abbigliata come una regina davanti allo specchio; Penelope Cruz in rosso, trasportata nella notte dall’uomo che l’ha appena spinta giù dalle scale; Penelope Cruz in fase post-coitale, che torna nella camera da letto e trova il suo vecchio amante come morto. Binomio ormai consueto, Cruz e Almodóvar si conoscono alla perfezione. «D’altra parte, lavorare con Pedro è sempre un flusso naturale di vita per me, ma in questo film devo confessare che Pedro mi ha fatto anche stare male». Alla provocazione della sua musa, il regista reagisce scherzando: «Non provo alcun senso di colpa per averti fatto stare male. Io chiedo ai miei attori di essere sempre il più realistici possibile, in qualunque mio film, anche in quello più surreale». Da Penelope Cruz, la fata che circola in questo labirintico film, Almodóvar riesce ad avere ciò che nessuna produzione hollywoodiana potrà mai ottenere: sorrisi particolari, lacrime inedite e soprattutto un’umoristica presa in giro della sua immagine ufficiale e della sua famosa bellezza.
MUSE CELEBRI
«È lei che aspettavo», esclamò Rainer Werner Fassbinder, ai tempi del Fridl-Leonhard-Studio di Monaco, rivolgendosi a Hanna Schygulla che diventerà la sua musa. Lo deve aver pensato anche Pedro Almodóvar scegliendo di legare il suo nome a quello di Penelope Cruz. E come lui sono stati numerosi i cineasti la cui carriera si è unita a quelle di altrettante attrici. Nomi annodati a doppio filo da affinità artistiche ed affettive o intrecciati dalla necessità del cineasta di trasferire su un altro corpo parte della propria essenza. Ecco che la musa si trasforma in attrice feticcio e/o alter ego femminile di colui che la dirige. Attrici d’indiscusso talento che, grazie al loro carattere libero e indipendente, sono diventate vere e proprie icone del cinema contemporaneo. Dall’innato fascino e dalla straordinaria eleganza a volte incarnano la bellezza della sofferenza e dell’inquietudine (come Tilda Swinton o Julianne Moore rispettivamente nei film di Derek Jarman e Todd Haynes). Molto spesso sono gli stessi autori a cucire loro addosso le parti da interpretare (Tim Burton e Helena Bonham Carter, Woody Allen e Scarlett Johansson) in una contaminazione continua tra donna e personaggio. Nomi e volti che hanno ricevuto premi e riconoscimenti internazionali, conquistando gli spettatori di tutto il mondo e contribuendo a far emergere all’estero i loro maestri (si pensi a Gong Li con il cinese Zhang Yimou o a Isabella Rossellini con il canadese Guy Maddin).
(di Fausto Furio Colombo da Kult N.09 settembre 2009)

TSAI MING-LIANG
REGISTA DI CULTO, IL MALESE TSAI MING-LIANG, DOPO I CAPOLAVORI A BASSISSIMO TASSO DI DIALOGHI COME VIVE L’AMOUR, IL BUCO E CHE ORA È LAGGIÙ, RENDE OMAGGIO AL CINEMA FRANCESE INSTALLANDO DIETRO LE QUINTE DEL LOUVRE UN FILM NEL FILM. VISAGE È UNA SUCCESSIONE D’INQUADRATURE D’IMPRESSIONANTE BELLEZZA, UN’ESPERIENZA SENSORIALE E ONIRICA CHE SI MANIFESTERÀ SOLO DOPO, MOLTO DOPO, LA VISIONE.

Tsai Ming-liang occupa un posto particolare nella luminosa costellazione dei registi taiwanesi di successo internazionale. Tra il suo primo lungometraggio Rebels of the Neon God del 1992 al suo più recente Visage presentato all’ultima edizione di Cannes, ha girato Vive l’amour, Il fiume, Il buco, Che ora è laggiù?, Goodbye Dragon Inn, Il gusto dell’anguria e I Don’t Want to Sleep Alone. E se molti dei più grandi registi ritornano ossessivamente sugli stessi territori tematici, muniti di un arsenale di strumenti narrativi caratteristici, il progresso artistico di TML è stato più particolare. La sua opera non consiste solamente in nove separate pellicole, piuttosto in un film osservato da nove diverse angolazioni e interpretato secondo nove differenti stati d’animo. Come i dipinti di Mondrian, le loro similitudini sono, al primo colpo d’occhio, più notevoli delle loro differenze, ma proprio perché sono talmente simili, le differenze acquistano maggior significato. Non è un caso che TML sembri più un pittore che non un regista. Affronta vari temi e generi, gira sceneggiature scritte da altri e spesso adattate da diverse fonti e, come un pittore, esplora ogni singolo colore, ogni minima variante di un’idea di base, lavorando pazientemente per catturare qualcosa al tempo stesso preciso e sfuggente. Il colore che continuamente esplora è lo stato d’animo, la composizione della solitudine e dell’isolamento urbani. Un’artistica concezione del cinema che gli è valsa la partecipazione al padiglione di Taiwan alla Biennale di Venezia nel 2007 e ha convinto i curatori del Louvre a commissionargli la realizzazione del primo opus di una collezione intitolata “Le Louvre s’offre aux cinéastes”. Visage (in uscita in Francia a novembre) è una rilettura del mito della feroce principessa Salomè, ma anche un omaggio a Truffaut, adorato da TML che qui ha raccolto i suoi attori feticcio, da Jean-Pierre Léaud a Jeanne Moreau, da Nathalie Baye a Fanny Ardant. Vive l’amour, gridava il secondo film di TML. Quindici anni più tardi il regista d’origine malese dichiara il suo amore incondizionato verso il cinema della Nouvelle Vague di cui ricorre il cinquantenario.
Quale è stata la sua reazione quando ha appreso che il Louvre le avrebbe dato la possibilità di girare un film nei suoi spazi?
Mi sono sentito molto onorato e fiero per quest’invito. Confrontarsi con questo gigantesco museo, così famoso e che conserva una così vasta collezione di opere d’arte, ha rappresentato una sfida personale senza precedenti. Parallelamente sono stato assalito da un senso d’inadeguatezza: come avrei potuto realizzare un’opera che potesse essere accostata ai capolavori contenuti in quest’istituzione che hanno attraversato le epoche storiche e che sono assolutamente uniche? Ma poi, durante i primi sopralluoghi, visitando anche quegli spazi non aperti al pubblico, mi sono detto che sarebbe stato sufficiente essere me stesso, fare ciò che avevo voglia di fare e fare ciò che pensavo di dover fare. Solo così avrei potuto essere accettato e tollerato da questi giganti artistici. Con Visage torna a girare a Parigi dopo Che ora è laggiù? e spesso ha citato la sua ammirazione per il cinema europeo. Da cosa nasce questo fascino?
Prima di arrivare a Taipei avevo già visto molti film in Malesia dove sono nato e ho trascorso la mia adolescenza, ma erano quasi tutte pellicole hollywoodiane. Raramente mi era capitato di vedere un’opera europea o di altre nazionalità, quindi pensavo che lo stile hollywoodiano fosse l’unico adatto per realizzare un film. Poi, quando mi sono trasferito a Taipei, ho avuto accesso ai Taiwan Film Archives e ho potuto visionare molti lavori provenienti dall’Europa: il cinema espressionista tedesco, la Nouvelle Vague francese, il Neorealismo italiano. Improvvisamente la mia mente si è aperta a un nuovo modo di fare cinema e mi ha influenzato non poco, soprattutto il periodo che va dalla fine degli anni ’60 ai primi anni ’70. Penso che quello sia stato il periodo di massima qualità della storia del cinema.
Laetitia Casta ha confessato il suo totale entusiasmo nell’aver potuto lavorato con lei, nonostante le scene truculente a cui l’ha sottoposta. Cosa l’ha spinta a scegliere un’icona della moda?
Nel momento in cui Laetitia è entrata nel mio universo surreale ne ha immediatamente accettato le regole e conseguentemente le scene in cui ho ricoperto la sua meravigliosa pelle, spesso paragonata per splendore e morbidezza al latte e al burro della Normandia, con chili e chili di quarti di bue sanguinolenti… Nonostante abbia da tempo intrapreso una carriera di attrice ho scelto Laetitia perché, come Robert Bresson, amo l’idea di una modella come star del cinema. È fotogenica e le sue pose rasentano la perfezione. Sin dall’inizio delle riprese ha subito compreso ciò che volevo ottenere da lei e quando si è lasciata alle spalle paure e incertezze ho scoperto quanto talento aveva da offrire.
Lei ha scoperto il mondo del cinema grazie ai suoi nonni: riesce ad immaginarsi di andare con loro a vedere uno dei suoi film?
No, si addormenterebbero! Mio fratello minore ne ha visto qualcuno e mi ha raccomandato di non mostrarli a nessuno del mio villaggio nativo, non sarebbero in grado di sopportarli. Quindi, non porto mai le mie videocassette quando faccio visita a casa in Malesia. Spesso mi chiedono se ho portato qualche video e io rispondo che non esistono cassette dei miei film… Il padre di Lee Kang-sheng (attore taiwanese straordinario presente in tutti i suoi film n.d.r) ha visto Il fiume prima di morire nel 1997 e disse che era un film porno!
(di Fausto Furio Colombo da Kult N.09 settembre 2009)