QUESTO MESE SU KULT

SESSUALITA' E RELIGIONE, TALENTI DAL MEDIO ORIENTE, COMMEDIE COME ANTIDOTO ALLA CRISI E FAR EAST COME NON LO AVEVAMO MAI VISTO. SONO LE PELLICOLE INNOVATIVE E CORAGGIOSE PRESNETATE AL 62° FESTIVAL DI CANNES, IN ARRIVO SUI NOSTRI SCHERMI SUBITO DOPO LE VACANZE ESTIVE
Come nessun altro festival, Cannes gioca un doppio ruolo: geopolitico e simbolico, raccontato da pellicole libere, innovative e coraggiose. Come ha detto il regista (e teorico del cinema) Alain Resnais, lucido, generoso e contro corrente come sempre, «il cinema mondiale è oggi senza alcun dubbio più creativo che mai». Film accomunati da una nobile missione, scrutare il reale nei suoi recessi geografici e sociali, tra etnografia e finzione da (re)inventare. Titoli che, al di là delle Palme d’Oro, si candidano a strumento principe per osare, sperimentare e comunicare.
SEX & RELIGION
Un prophète, di Jacques Audriad, violentato in carcere qui; un macellaio etero ebreo ortodosso che si tuffa in un’impossibile passione omosex (Eyes Wide Open di Haim Tabakman) là. Poi un carico di sevizie sessuali perpetrate sotto il segno dell’autorità protestante di un padre medico (Il nastro bianco di Michael Haneke, vincitore della Palma d’Oro). O ancora l’eroe, ma anche eroina, di Morire come un uomo di Joao Pedro Rodrigues, travestito portoghese cattolico e credente, attanagliato dal dubbio teologico quando si tratta di cambiare la sua natura maschile nel corpo di una donna… La sessualità è stata, come spesso accade, al centro delle rappresentazioni cinematografiche percepite sulla Croisette. La novità è l’assalto del sesso alle questioni religiose. A scapito di Dio, piuttosto che il contrario. Ma il sesso gioca, sempre più spesso, anche un ruolo di leva politica (Notti d’ebbrezza primaverile di Lou Ye) e d’indice rivelatore sociale (Fish Tank di Andrea Arnold), quando non si trasforma in una forma di culto di se stesso (Le Roi de l’evasion di Alain Guiraudie).
CRONACHE DAL MEDIO ORIENTE
Peggio vanno le cose, più numerose sono le cose da vedere. È il paradossale messaggio
inviatoci, quest’anno, dal medio oriente. Dall’Iran a Israele, passando per la Palestina,
siamo in un territorio complesso e ricco di talenti. È da Teheran che arriva la sorpresa migliore: Non si sa nulla dei gatti persiani di Barman Ghobadi. Ciò che mostra il regista curdo è un film sull’eclettica gioventù underground locale, qualcosa d’inedito, di coraggioso e allegro. D’Israele era noto quanto il suo cinema potesse diventare vigoroso quando la società che documenta entra in crisi. Jaffa, col suo mondo di gente comune raccontata da Keren Yedaya e Ajami di Scandar Copti e Yaron Shani, noir girato con grande sforzo organizzativo nell’ambiente arabo, lo confermano. La Palestina, infine, si afferma nel cinema quanto più è segregata nel limbo geopolitico. In The Times that Remains, Elia Suleiman fa mostra di una pienezza di racconto inedita. Mentre Cherien Dabis con Amreeka incarna una promessa di sapore globale.
A COLPI DI COMMEDIA
Generalmente mal quotato sul registro del divertimento, il Festival di Cannes ha accolto
quest’anno un gruppo imponente di commedie. Dimostrazione che in un periodo di crisi tutti i tentativi per scacciare la malinconia dilagante beneficiano di un’accoglienza favorevole, tanto che tutte le sezioni presentavano almeno un titolo ad hoc. Il via lo ha dato Up, il nuovo Pixar da guardare con gli occhiali 3D scelto per inaugurare la kermesse. A seguire il concorso, con Taking Woodstock di Ang Lee che affronta ancora il tema dell’omosessualità raccontandoci la storia vera di Elliot Tiber, uno dei promotori del famoso festival, e Inglourious Basterds di Quentin Tarantino, imbastito come una commedia, astuta per alcuni, pestifera per altri. Ma è stata alla Quinzaine des réalisateurs che le sorprese migliori attendevano gli appassionati della buffonata: I Love You Phillip Morris con Jim Carrey e Ewan McGregor molto ispirati nel ruolo di gay scatenati, la black comedy J’ai tué ma mère del canadese Xavier Dolan, il multipolare Humpday di Lynn Shelton, e Les beaux gosses di Riad Sattouf che, già autore del fumetto omonimo, ha sedotto pubblico e critica declinando alla francese il caustico genere del teen movie.
L’ORIENTE PARLA L’ARGOT
Un forte e intenso vento asiatico ha soffiato su Cannes, più ancora che gli anni scorsi. Fra i nomi di spicco il coreano Park Chan-wook, l’autore della trilogia della vendetta, che con Thirst racconta di un sacerdote trasformatosi in vampiro al rientro da una missione africana. Hong Kong era presente con Johnnie To e Vengeance, dichiarato omaggio al cinema di Melville e al polar francese in genere dove la rockstar e attore transalpino Johnny Hallyday interpreta un killer che, in una Hong Kong cupa e piovosa alla Blade Runner, cerca vendetta. Francia e oriente è stato un binomio presente anche in Visage del taiwanese Tsai Ming-liang con Fanny Ardant e Jeanne Moreau interpreti di un’opera ambientata al Louvre e che racconta l’eterna variazione di Salomè (qui Laetitia Casta). L’intreccio esagono e arcipelago del Sol Levante si sviluppa infine in Enter the Void, del francese Gaspar Noé, discesa nel vuoto spinto della stroboscopica Tokyo e nelle allucinazioni della droga; film che possiede un buon grado di delirio visivo anche al supporto architettonico della capitale giapponese.
(di Fausto Furio Colombo da Kult N.07/08 luglio-agosto 2009)
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